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Cultura che unisce e non divide

Il discorso di Mattarella riporta al centro la cultura come strumento di pace

 

Non basta essere lavoratori della cultura per essere (o ritenersi) assolti.

Non è detto che se il nostro lavoro quotidiano maneggia la poesia, la musica, la letteratura come il pizzaiolo maneggia la pasta lievitata, questo elevi il nostro spirito fino a fare di noi degli esseri del tutto intelligenti, tolleranti, attenti e sensibili, con sguardo privilegiato sulla realtà. E’ un attimo distrarsi, e un attimo può durare un mese, un anno, una vita.

La cultura è occasione di catartici momenti di solidarietà, come accaduto la scorsa domenica 10 aprile, durante il concerto, partecipatissimo nella chiesa di San Luca all’Arena, in cui lo Stabat Mater di Pergolesi ha voluto essere un pensiero per le madri ucraine e tutti i civili innocenti coinvolti in questa guerra assurda.

Eppure anche la cultura può essere strumento di divisione, come nel caso dell’imbarazzante figura dell’Università Bicocca che ha cancellato (e poi prontamente ripristinato) le lezioni del Prof. Paolo Nori su Dostoevskij, o di rivendicazione dell’identità di un popolo come accaduto nel caso delle danzatrici di Degas che la National Gallery di Londra, dopo una protesta social ha rinominato “danzatrici ucraine”  invece della precedente definizione “danzatrici russe”.

Noi cicale cantiamo il nostro tempo pur senza talvolta conoscerlo, lo cantiamo proprio per conoscerlo, per sondarlo, per aprirlo e assaggiarlo, mentre ancora è rovente

Cultura è cantare anche durante l’inverno

Quando è scoppiata la pandemia abbiamo chiesto il diritto a non essere marginalizzate, noi cicale, che cantiamo il nostro tempo pur senza talvolta conoscerlo, che lo cantiamo proprio per conoscerlo, per sondarlo, per aprirlo e assaggiarlo, mentre ancora è rovente. Scottarsi fa parte del gioco, ma non sempre è facile, perché sono i lavoratori della cultura i primi a mettere in atto tra loro (retaggi di accademia?) meccanismi malsani di ipocrisia e competizione.

Soggiogati dalla società della vergogna, in cui perfino la co-rettrice di Bicocca sceglie “per prudenza” di cancellare un corso di letteratura, sperando di evitare la tempesta che proprio per quella scelta si è scagliata su di lei, si resta interdetti e disorientati. Un po’ impacciati, come chi ha sempre la sensazione di trovarsi nel posto sbagliato e nel momento (storico) sbagliato, e in ogni caso, impotenti, nei confronti della Storia che ci travolge. Quella storia che chiede un minimo di distanza per essere letta, interpretata, compresa, dagli strumenti del pensiero, e che diventa molto più scivolosa se è invece contemporanea.

Poi però, c’è chi è come un faro, che illumina la strada agli altri, o un balsamo, che sa usare le parole per guarire. Non per dividere, ma per unire.

Il discorso del Presidente Mattarella di pochi giorni fa, in occasione dell’inaugurazione della nuova capitale della cultura, è stato pretesto per riportarci al cuore di ciò che per noi significa lavorare nella cultura.

Ne trascriviamo qui alcuni stralci, perché non abbiamo avuto modo di trovarlo online. Perché queste parole guariscano, anche chi è scettico, e tengano acceso un lumicino, anche quando non ne veniamo fuori, da tutto questo buio.

La cultura è sinonimo di pace

“La cultura è un capitale, da valorizzare e da investire. Lo è come somma delle espressioni dell’ingegno umano. Lo è nell’eredità lasciata nei millenni. […] La cultura attrae turismo, e rende questo turismo più maturo, più capace di conoscere e di apprezzare, e non soltanto di guardare distrattamente. […]

La cultura non è un luogo separato dal contesto sociale, una nicchia di attività umane voluttuarie o superflue bensì è bellezza, che si trasmette, è pensiero che arricchisce, è conoscenza, etica, dialogo, emozione. […] La cultura è anche sinonimo di pace. La sua autenticità sta proprio nella capacità di promuovere curiosità che diventa comprensione, amicizia, convivenza, cooperazione.

Viviamo giorni terribili, siamo travolti da immagini che pensavamo di aver consegnato per sempre all’archivio degli orrori non ripetibili nel nostro continente. Invece altro sangue innocente, altre vite spezzate, altri crimini spietati stanno popolando gli abissi della disumanità. […] Il patrimonio culturale genera patrimonio morale, in cui risiede la civiltà di un popolo. Genera umanesimo. Sono le risorse che permettono ai popoli di ripartire, di rialzarsi, di ricostruire sulle macerie, di riprendere a dialogare, di costruire su orizzonti comuni.

La cultura respinge la pretesa di chi vuole trascinarla nel vortice della guerra. Ribadisce al contrario la sua limpida vocazione al dialogo e alla pace. I popoli europei sono intimamente legati da fili che la storia ha reso forti, preziosi, insostituibili. Non possono e non devono essere lacerati […] La letteratura, la musica, le arti costituiscono una rete e una ricchezza comuni, che non devono essere smarrite. […] E’ in gioco il destino dell’intera Europa, che si trova a un bivio tra una regressione nella sua storia e la sua capacità di sopravvivere ai mali del passato e di superarli definitivamente.”

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